Il mi nonno faceva l’innestino. L’innestino era un mestiere duro e che richiedeva una particolare capacità di osservazione della natura. I ‘nestini, se si vuol essere precisi, facevano la loro comparsa in primavera e la loro arte era quella di riuscire a trasportare una gemma, staccata precedentemente da una pianta, su un’altra pianta radicata al suolo, affinché queste due si saldino insieme e la prima si possa sviluppare sulla seconda.
Gigi subito dopo la seconda Guerra e prima della fine della mezzadria negli anni Sessanta, consumò i ginocchi ad innestare gran parte del Chianti. I proprietari e i fattori delle aziende agricole lo chiamavano insieme a squadre intere di ‘nestini per innestare i loro campi vitati, e lui, insieme alla sua inseparabile “cassettina degli attrezzi” costruita rigorosamente da solo, partiva presto le mattine di marzo per andare a tagliare dei rami con almeno una gemma da delle viti selvatiche: le talee. Ogni tàlea sarebbe stata in grado di rigenerare una nuova vite una volta interrata e lasciata a riposare almeno un anno perché mettesse le radici.
La primavera successiva, quando la linfa scorre più viva, Gigi insieme agli altri ‘nestini tornava alle piantine e le innestava con la varietà di uva più adatta al terreno, all’esposizione al sole, al clima o seconda di della qualità che si voleva ottenere. Con la testa china sul futuro filare e le ginocchia piegate, poggiate sulla terra umida, gli innestini mettevano in pratica la loro arte. E anche con una certa rapidità, visto che erano pagati non solo per il numero di nuove piante che attecchivano, ma anche per la quantità che ne avevano innestate. Ma la ragione principale dell’innesto era un’altra: la filossera. La vite europea non era infatti abbastanza forte se aggredita dal parassita e per migliorarne al resistenza era dunque innestata sulla vite americana, più robusta.
Ci voleva occhio perché l’”accoppiamento assistito” si consumasse, e l’assistente era il garante della sincronia fra due soggetti vegetali diversi. (altro…)